lunedì 19 gennaio 2009

L'asse Roma / Berlino / Tokyo


Domenica sera di metà gennaio offuscata da nebbiolina giallastra. Viale Certosa offre un assortito catalogo di travanda; in fondo, il cimitero. Nello spiazzo antistante, ricoperto da una patina di neve marrone, si sono dimenticati di demolire una cascina semidiroccata (c'è anche una specie di edicola - massimo dieci metri quadri - che porta la scritta "mercato comunale coperto" - cos'è, un mercato per nani? Dovrò indagare). Nella cascina semidiroccata che sgocciola neve da tutte le parti (colpito da goccia gelida sulla noce del capocollo - bestemmia a riflesso condizionato) si esibisce il cantante di uno dei gruppi più influenti della storia del rock (sì, è un altro capitolo della saga "Milano è attenta alla cultura e ai giovani e la nostra è una città dal respiro e dalle dimensioni europee").

Insomma, in un contesto urbanistico ignobile e inasprito dal gelo, che porterebbe perfino un geometra a suicidarsi tramite ripetute testate contro il bordo del marciapiede (il medico curante di Renzo Piano ha stilato un elenco di zone interdette - per questioni di vita o di morte - al celebre architetto), c'è Damo Suzuki dei Can. Roba da non crederci. E non è la solita vecchia gloria che si comporta da solita vecchia gloria confidando nella presenza dei soliti fan acritici. Il suo progetto Damo Suzuki's Network lo porta già da diversi anni ad esibirsi in compagnia di musicisti sperimentali locali. Quindi ogni concerto, partendo da un canovaccio di base su cui improvvisare, è diverso da tutti gli altri per strumentazione, background e sensibilità dei musicisti coinvolti (l'ensemble di ieri sera, guidato dall'onnipresente Xabier Iriondo, si basava su due slide guitar elettriche e batteria - roba strana e abbastanza diversa da quella che vedete nel video, filmato a Sheffield).

Ma per gustarsi la leccornia, il piatto forte, la morale cristiana insegna che prima bisogna fare penitenza ("prima il dovere, poi il piacere"). Il supplizio (non così tremendo a dir la verità, ma interminabile e completamente fuori tema) si chiama Trance Meeting, dalla Puglia. C'è sto tizio, sicuramente un ex rasta, che deve necessariamente suonare tutta la sua collezione di quarantasette tamburelli mediterranei del cazzo. Che tanto poi, microfonati (con un inedito "microfono da polso") e filtrati attraverso un groviglio di cavi, diventano techno-trance uguale a quella del 1991, quindi bastava usarne uno di tamburello, tanto poi hai gli effetti. Invece no, deve suonare ogni singola percussione per almeno mezz'ora. L'apice patetico lo raggiunge quando si cimenta alla caccavella: vista la particolare tecnica con cui si deve suonare questo curioso oggetto folkloristico, ai lettori omosessuali piacerà sapere che il signor Trance Meeting è bravissimo a fare le seghe. E dire che i suoni in sè sono anche piacevoli all'ascolto (la caccavella microfonata produce un drone profondo e potente, piacerebbe ai Sunn O))) se suonarla in pubblico non fosse così umiliante), ma l'insieme folklore-elettronica fa tanto mondialismo della mutua, è tutto troppo uguale a sè stesso, dura troppo e l'accuratezza tecnica non fa certo parte del bagaglio culturale di quest'uomo (facendo musica che deve essere precisa e ripetitiva, non è bello). La membrana della caccavella è assicurata al corpo cilindrico dello strumento con la cinghia della tapparella, la stessa che usavano gli emigranti per tenere chiusa la valigia di cartone. La trance ha scassato i coglioni, la minimale ha rotto il cazzo e la massimale ha fracassato la minchia. Sotto l'effetto della litania salentina si materializza dal nulla anche una punkabbestia col cane. Ho detto tutto.

Intervallo. Scappo al bar, dove si sono rifugiati tutti quelli che hanno un grado di sopportazione del Salento inferiore al mio, tra i quali ("Che ne dici di sta roba?" - "Fa schifo al cazzo") la fenomenale cantante degli Ovo, in Italia per completare le registrazioni di un nuovo album solista dopo quello del 2006. Mi riprendo dallo scoramento grazie a un bicchierino di Zubrowka, la vodka più buona del mondo, aromatizzata con un'erba caratteristica della foresta di Białowieża e particolarmente gradita ai bisonti. Tale erba contiene cumarina (topicida, in massicce quantità). Va quindi bevuta "con moderazione" ed è pure vietata in molti paesi, ma è troppo buona.

Passiamo all'angolo delle coincidenze. Xabier Iriondo (Mahai Metak - una sorta di slide, chitarra elettrica, oggetti), Maurizio Abate (slide guitar, chitarra elettrica, armonica), Daniele Malavasi (batteria), Maikko e MM (live electronics) sono musicisti italiani (Roma). Damo Suzuki è un cantante giapponese (Tokyo) ma ha raggiunto la fama prestando la propria voce a una straordinaria band tedesca e ha sempre abitato in Germania (Berlino). Unite i nomi delle città con un tratto di penna ed ecco il titolo di questo post. Il concerto si svolge sotto l'egida di un centro sociale, i cui esponenti e gran parte dei frequentatori in questo momento storico di sicuro non appoggiano posizioni politiche filosemite. Che poi devo ancora capire quale sia l'appeal delle faccende israelo-palestinesi presso l'opinione pubblica. Contemporaneamente ci sono nel mondo circa 25 altre guerre al confronto delle quali Gaza è una rissa da bar. La guerra in Congo, ad esempio, è infinitamente più cruenta e sanguinosa, mine antiuomo dappertutto, fanno combattere i bambini, ci sono profughi (al cui confronto i palestinesi sono alta borghesia), curiose malattie come Ebola. Mi sta sui coglioni: in Congo ci sono i gorilla (animali simpatici), la vera foresta pluviale, dei luoghi fenomenali, miliardi di tonnellate di materie prime di ogni tipo e c'è perfino gente che ha la forza di fare musica della stramadonna. L'apporto dato da Israele/Palestina all'umanità è invece paragonabile a quello del Liechtenstein: pompelmi, uno che piegava i cucchiai con la forza del pensiero, la fidanzata di Leonardo Di Caprio. Dal punto di vista paesaggistico sembra la periferia di Caserta trapiantata su una pietraia. Materie prime neanche a parlarne. Rotture di balle, au contraire, tantissime, a cominciare da questo qui. E una massa di teste di cazzo che si menano per questioni di principio. E gli italiani si schierano, prendono posizione, fanno il tifo (curiosamente quest'anno la kefiah è di gran moda, reinterpretata dai maggiori stilisti in colori trendy). L'unica soluzione è lasciar fare, tanto non la smettono. Scommesse?

Torniamo al noise. Damo Suzuki, colpito da logorrea, canta con parole inintelligibili (o forse proprio inventate) per una bella ora e mezza, Iriondo gioca con la Mahai Metak, la massacra con vari strumenti da cucina e non (paglietta di ferro, batticarne, animaletti di plastica, biglie), usa pure un altro strumento mai visto prima che è una specie di slide con tasti come quelli delle macchine da scrivere di una volta. Mah. Misteri senza nome dalle profondità dei magazzini di Sound Metak. Bello, ipnotico, sempre sull'orlo della ripetizione fine a sè stessa dalla quale i nostri si districano con classe. E poi hai a mezzo metro uno che davvero ha fatto la storia, e al quale la struttura da fienile della Cascina Torchiera avrà ricordato non poco le atmosfere dello Schloss Nörvenich, dove provavano e registravano i Can nei primi anni 70. Ve l'ho già detto che un concerto lo vedi bene quando vedi che scarpe indossano i musicisti?

Per concludere in bellezza e per ripagare chi ha letto fino in fondo ecco una bella roba da scaricare: Zhengzheng Rikang, bootleg semi-ufficiale dei Can pubblicato nel 2006 che raccoglie un po' di alternate takes degli albori del gruppo tedesco (1968/69), con Malcolm Mooney alla voce invece di Suzuki (che arrivò dopo). Registrato molto bene in studio, non quelle cagate fatte col walkman, pubblicato solo in vinile, mai incidentato, gomme nuove, meccanica a posto, praticamente perfetto (il link lo trovate nei commenti).

mercoledì 14 gennaio 2009

Al cineforum


In Italia siamo al punto che se vuoi vedere un film decente devi recarti in un ex negozietto monovano trasformato in centro culturale con una cinquantina di sedie di legno e un tappeto (dove autopunirsi nella posizione del fior di loto se arrivi tardi e le sedie di legno sono già tutte occupate). Ieri sera è andata così. Situazione da cantina rumena in epoca Ceausescu, con i sovversivi filo-occidentali che si ritrovano per vedere Rambo 2, e chi pesca la pagliuzza più corta sulla porta a fare il palo, tre fischi brevi e uno lungo se arrivano quegli infami della Securitate.

Il film. Chapter 27, dell'esordiente J.P. Schaefer, racconta dell'omicidio di John Lennon dal punto di vista dell'assassino Mark David Chapman. Vabbè, il folle va a New York, aspetta Lennon sotto casa per tre giorni, si fa autografare il disco, gli spara, Lennon crepa, Chapman va in galera. Non gridate "Spoiler! Spoiler!" perchè non è la trama il punto, è come se vi avessi raccontato il Gesù di Zeffirelli. Chapman dopo trent'anni e un solo omicidio è ancora in gabbia (mica come da noi), nel caso lo scarcerassero mi offro di ospitarlo, chissà mai voglia rinverdire i fasti del passato collaborando con qualcuno tra i musicisti italiani più in vista. Il film non essendo mai stato distribuito in Italia viene presentato in splendente copia scaricata da torrent e sottotitolata da alcuni eroici appassionati che sottotitolano anche tutte le serie tv appena escono all'estero. Mi piace pensare che costoro trascorrano il proprio tempo libero ricopiando tutto internet a mano, con la penna d'oca su grandi codici miniati, in bello stile quattrocentesco, come novelli amanuensi. Ovviamente tradotto in Althochdeutsch. Link doverosi: gli ospiti, i curatori, gli amanuensi.

Il protagonista (Chapman) è l'orrendo emokid Jared Leto, ingrassatosi di trenta chili per interpretare la parte. Finalmente invece di un attaccapanni con gli occhi cerchiati di nero che frigna si vede un rassicurante bagonghi che raggiunge il massimo spessore al punto vita. Va detto: Leto è di una bravura sconcertante. Va detto: la somiglianza col vero Chapman è sconcertante (questo è Chapman. Questo è Leto).

La co-protagonista femminile è la troietta in carriera Lindsay Lohan, drogata, ninfomane, bisessuale, amica di Paris Hilton e cresciuta alla corte del Disney Channel come protagonista di pietre miliari del cinema per famiglie quali "Genitori in trappola" e il remake di "Herbie, un maggiolino tutto matto". Con tali credenziali potrebbe e dovrebbe dedicarsi a quei generi cinematografici che i giornalai di corso Buenos Aires tengono nello sgabuzzino dietro la tenda. D'altronde il Disney Channel sta agli Stati Uniti come le scuole delle Orsoline stanno all'Italia (appunto personale - ricordarsi di aggiungere ai news alert queste tag: Hannah_Montana - black_orgy - overdose). Va detto: in questo film Lindsay Lohan è lignea e sempre vestita (tranquilli, si vede poco e incide ancora meno).

Fulcro del film è un libro, da cui Chapman dice di aver preso ispirazione per uccidere il suo idolo. The Catcher in the Rye (in italiano: Il Giovane Holden) compare sul ripiano figo della libreria dell'italiano medio, stretto fra Siddharta di Hesse e Sulla Strada di Kerouac. Sul ripiano sotto ci sono Io Uccido di Faletti, Il Codice Da Vinci di Dan Brown e qualche Moccia a scelta. Il "romanzo di formazione" di cui sopra narra di come un ingenuo e candido adolescente si accorga che il mondo è ipocrita e cattivo. J.D. Salinger, il furbo autore, campa alla grande dal 1951 facendo un cazzo e nascondendosi dai ficcanaso (senz'altro un esempio da seguire). Il giovane Holden chiede continuamente "dove vadano le anatre del laghetto di Central Park quando il laghetto è ghiacciato" e soffre perchè la gente lo prende per il culo. Un'inquadratura di Chapter 27 risolve il mistero. Si vede il laghetto di Central Park ghiacciato e un angolino libero dal gelo pieno di anatre. In quell'angolino scommetto che c'è il tubo di scarico delle fogne dell'Upper East Side, un cocktail più efficace del paraflu: merda, cocaina e tensioattivi old style pre-ecologismo. Le anatre, i furbi palmipedi, stanno tutte lì perchè si sono accorte che l'intruglio ha proprietà impermeabilizzanti non da ridere. Così non sono costrette a ficcarsi continuamente il becco nel culo per prelevare del "grasso" (vabbè) da spalmarsi sulle piume.

Ma come al solito sto divagando. Passiamo ad alcuni interessanti trivia. La casa dove abitava John Lennon è la stessa dove Roman Polanski ha girato Rosemary's Baby. Rosemary's Baby parla del diavolo. La moglie di Polanski è stata fatta a pezzi dalla setta satanica guidata da Charles Manson (ed era incinta). Charles Manson era ossessionato da Helter Skelter dei Beatles. Torna tutto. Questa rivelazione è il gancio per la battuta più bella e intraducibile del film (a memoria: - Did you know Rosemary's Baby was shot here? - The movie? - No. The baby). Ma il tocco di genio del film è un altro. Indovinate come si chiama l'attore che interpreta John Lennon. si vede per due secondi di sfuggita e non assomiglia, ma è stato preso lui perchè si chiama... Mark Chapman.

Qui vi scaricate il torrent. Qui vi scaricate i sottotitoli. Mettete tutto insieme con VLC Player. Come si fa esattamente non lo so, ma per una volta potete anche sbattervi da soli. Buona fusione.

P.S. Chapter 27 NON è una cagata pazzesca. Anzi è bello, ben girato, ben sceneggiato, maniacale nella ricostruzione storica, sporco al punto giusto e si citano perfino i Today Is The Day (un gruppo di cui potevo scrivere quando non avevo voglia). Il loro nome proviene dall'episodio citato in Chapter 27. Il cantante dei Today Is The Day si chiama Steve Austin. Esattamente come il protagonista dell'Uomo da 6 Milioni di Dollari interpretato da Lee Majors. Che in un altro telefilm faceva la parte di uno stuntman. C'è anche un wrestler che si chiama Steve Austin e anche questo ha fatto lo stuntman. Lo Steve Austin wrestler e lo Steve Austin cantante hanno entrambi un tatuaggio con la faccia di Lee Majors - no, basta.

P.S. del P.S. Vi dicevo di The Catcher In The Rye. "Rye" è la segale. Incidentalmente Segale è il cognome di uno dei metallari dietro l'eccelso SoloMacello. Questo figuro era presente alla proiezione di Chapter 27 - no, basta cazzo, ho detto basta.

venerdì 19 dicembre 2008

Le mirabolanti gesta del Fuco in chiesa


C'è questa manifestazione che si chiama "La musica dei cieli", fatta per attirare in chiesa gente cui non frega un cazzo - e infatti la serata comincia con doppia omelia - i preti non evitano mai il tentativo di proselitismo - purtroppo gli infedeli delle nostre parti hanno perso l'abitudine di farli a pezzi.

Due parole sulla location. La chiesa dei SS. Gervaso e Protaso di Novate Milanese si bulla di esistere fin dal 1042. La struttura architettonica visibile oggi è opera dell'insigne Ugo Zanchetta che la ristrutturò nel 1934 con marmi policromi, colonne lombarde lucidissime (panciute come panettoni e cumènda, lontane dallo slancio della colonna classica greca ma sintomatiche dei quattro comandamenti regionali: lavoro, guadagno, spendo, pretendo), capitelli a guanciale, tabernacolo a gazebo memore della belle epoque californiana. E' come trovarsi nel palazzo imperiale di Nerone - se solo l'avessero progettato i grafici di Final Fantasy (non proprio, dai: purtroppo lo Zanchetta non cerca di stupire e il senso delle proporzioni non è nelle sue corde, si ispira all'understatement della buona borghesia di una volta). Il tutto è di una banalità sconcertante, d'altronde l'architettura cattolica è da più di un secolo la palestra del giovane palazzinaro. Comunque questo è niente rispetto alle nefandezze che lo stile è riuscito a produrre in tempi più recenti.

Off topic: una canzone di Robert Wyatt intitolata Catholic Architecture - forse sarebbe ora di intitolargli una cattedrale, la Basilica di Babbo Natale Paralizzato - un gran colpo sarebbe anche solo averlo alla prossima edizione della Musica dei Cieli.

Ma passiamo agli highlights. Bonnie "Prince" Billy con barba da apostolo taglialegna, 38 anni ma ne dimostra 60, grandi sorrisi, tentativi di esprimersi in italiano (e c'è un grande manifesto con foto autentica di Gesucristo sul quale campeggia la scritta "il precursore" che l'ha fatto molto ridere). Si scopre che è stato per la prima volta a Milano nel 1989, quando, diciannovenne, era in viaggio verso l'India con la madre - presumo fricchettona. Se sapessero che quest'uomo è figlio della droga (probabilmente anche fratello, vedasi eloquente galleria fotografica - quest'altra foto fuga ogni possibile dubbio) di certo non parteciperebbe alla rassegna. E infatti Bonnie Prince sembra un po' zavorrato, imbarazzato dalla situazione - pur presentando un concerto da brividi, in cui riarrangia fino a renderli quasi irriconoscibili molti suoi brani classici (da "I See a Darkness" a "Arise Therefore", addirittura del repertorio dei Palace). Chitarra acustica, elettrica (garbata), violino e coro polifonico. I due comprimari che lo accompagnano sono assolutamente all'altezza, gli arrangiamenti elegantissimi, la voce unica. L'ampio spazio ecclesiastico dà quell'accenno di riverbero che ci sta proprio bene. Un grande artista. Quando attacca "I See a Darkness" (interpretata a suo tempo anche da Johnny Cash - son soddisfazioni) un invasato nel banco davanti al mio leva le braccia al cielo e crolla singhiozzante e genuflesso. Scommetto che il parroco non c'è mai riuscito.

Mai probabilmente la chiesa dei SS. Gervaso e Protaso è stata teatro di applausi così scroscianti (in questi casi temo sempre il crollo improvviso, come quella leggenda metropolitana secondo cui un vetro antiproiettile resiste alle raffiche di mitra, ma basta toccarlo delicatamente in un certo punto e si frantuma in mille pezzi). E per vedere una tale affluenza di pubblico bisogna risalire al matrimonio della più figa del paese. Novate non è nota per le sue bellezze muliebri, però il compaesano parrucchiere di Miss Italia nonostante il cognome infelice può mettere una pezza agli scherzi di Madre Natura. Ma perchè non fanno come una volta, "Coiffeur pour dames" in neon corsivo e via andare?

venerdì 12 dicembre 2008

Blues for Godzilla




Se c'è una cosa che mi fa girare i coglioni è quando qualcuno si appropria di titoli che non gli competono. Uno sport in cui, come sempre quando si parla di difetti, gli italiani sono costantemente ai primi posti delle graduatorie mondiali. "Vasco è un rocker". "Zucchero è un bluesman". NO. Un emiliano grasso non potrà mai essere un bluesman, e anche per il rocker ci sono ben poche possibilità (qualcuno effettivamente c'è ma non il mai più nominabile bollito di prima). Anche all'estero non scherzano. L'abuso delle parole "punk" e "funk" nella stessa frase, ad esempio. Spesso aggravata dalla vicinanza di nomi propri di gruppo musicale che contengono della punteggiatura. NO. Tutti questi che mi rifiuto di nominare per intero non sono e non potranno mai essere "punk" o "funk". Sono froci. Non sono certo animati da furia, rabbia o vera incazzatura. Non hanno il tiro necessario. Non hanno imparato il ritmo giusto, perchè davanti alla loro finestra non è mai passato il treno (urbano o interurbano ha poca importanza). Frignano come lattonzoli mentre la lama del norcino si approssima alla giugulare ("ti preeego, non mangiaaarmi!").

Meno male che ci sono i BellRays. E la loro leader, Lisa Kekaula, che sta diventando una vera Big Mama (al momento è cintura nera 2° Dan, lo scatto di livello quando prenderà altri 15-20 chili). Arrivano loro, e quelle due parole di quattro lettere che messe vicine hanno poco senso improvvisamente prendono vita. Punk: il chitarrista, impresentabile d'aspetto (sembra Dana Carvey, non è una bella cosa), è un martello di fuoco. Funk: lei, la Negra (ovvio), capelli a microfono e atteggiamento ma chi cazzo siete voi. Ma anche il bassista (che vedrei bene in fila al centro d'arruolamento dei marines - cresciuto in una roulotte - parlando di sua madre dice "mia sorella") è una grossa palla di gomma che rimbalza giù per le scale. Il batterista è un perfetto uomo qualunque sul rapido delle 18:32. Ma tanto, i batteristi, chi li guarda mai. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Ma cosa aspetta. I pezzi che potete ascoltare sopra sono solo una pallida e fuggevole ombra della vita reale.

mercoledì 10 dicembre 2008

Concerto indimenticabile (non ho detto bello, ho detto indimenticabile)


Introdotti dai solidi (per qualcuno soliti) Fuckvegas, gli indescrivibili Shit & Shine si presentano sul palco: due batterie contrapposte, bassista con basso a due corde, cappuccio da coniglio e maschera blu, chitarrista-tastierista acconciato come sopra, più un tizio che tiene in mano un coniglietto a batteria e non si capisce cosa faccia (sa cucinare? è l'autista? è un esperto di drinking games? fa dei pompini fantastici?). I due batteristi (uno dimostra cinquant'anni e l'altro venti), in giubbotto ANAS, mostrano propensione al lavoro ripetitivo e alienante: eseguono un esercizio di batteria all'unisono, sempre identico per un'ora e passa. Il concerto degli Shit & Shine è tutto qui, perchè gli altri due si limitano a fare casino (tanto, sverniciante) sopra questo ritmo meccanico e interminabile. Ah, c'è anche il tizio misterioso che ogni tanto accarezza il coniglietto. Forse qualcuno ricorda un momento del serial Duracell (quarta stagione, episodio 7) in cui il coniglietto rosa amico di tutti suona il tamburo e sbaraglia la concorrenza fatta di coniglietti rosa amici di tutti che suonano il tamburo ma sono alimentati da normali pile zinco-carbone. Controllo quindi che i batteristi non abbiano sul dorso uno sportello a proteggere il vano batterie: non ce l'hanno (ehm... evito ispezioni anali), ma al loro posto potrebbe esserci quel robot batterista presentato qualche tempo fa da non so quale azienda giapponese, la sostanza non cambierebbe. E mi chiedo perchè uno decida di fare il musicista quando si divertirebbe di più alla catena di montaggio (con stipendio sicuro).

Come ben sanno produttori, programmisti radiofonici e uffici stampa promotori di musica stupida, basta suonare un brano qualunque fino allo sfinimento e all'ascoltatore medio piacerà. Il metodo che funziona perfettamente con Vasco e Nek viene sadicamente fatto proprio dagli Shit & Shine. Alla lunga il pubblico va via o resta come pietrificato (molti hanno i tappi nelle orecchie). Qualcuno ha l'incoscienza di chiedere il bis. E comunque questa non è roba nuova, Rhys Chatham persegue gli stessi obiettivi degli Smerda & Lucida da almeno trent'anni. E sul primo disco dei Liars (2001) c'è un brano di oltre mezz'ora che sembra un loop, tanto è ripetitivo. Non lo è.

Durante la tormentosa performance degli anglosassoni, si scatena la tormenta di neve. Il chiasso del furgone spargisale diventa musica. Tutto sommato indimenticabile (come lo è assistere a una fucilazione).

Comunicazione di servizio: il blog riapre a cadenza occasionale con contenuti ridotti e di qualità più scadente.

martedì 1 aprile 2008

Controcorrente


Gli A Hawk and a Hacksaw hanno suonato come band di supporto dei Portishead, ieri l'altro. Qui trovate una serie di insulti (che non condivido: quel blog rappresenta alla perfezione il mio pensiero, basta ribaltare tutte le affermazioni ivi contenute, è davvero l'anti-acne) per una band che si è trovata stritolata in un gioco troppo grande, su un palco troppo grande, per un pubblico che non era lì per loro ma per il trip hop. A dir la verità, dai video che si trovano in giro gran parte del pubblico credo fosse lì nemmeno per il trip hop, ma per chiacchierare dei cazzacci propri. Devo scoprire dove cresce l'albero dei soldi, così posso anch'io dare appuntamento agli amici per una birra in un posto dove entrare costa 30 e passa euro.

La verità è ovviamente un'altra: A Hawk and a Hacksaw nel loro campo possono rompere il culo a chiunque, può non interessare il genere, e mi chiedo chi sia il genio che li ha piazzati a suonare prima dei Portishead, ma nel folk acustico/balcanico non conosco degni rivali. Spero che i due di Albuquerque siano stati profumatamente pagati. Per fortuna, dopo aver trascorso uno scoppiettante lunedì libero a Milano (col cazzo: ieri suonavano a Firenze, figurati se si fermano nella Capitale Morale - a fà cusè? shopping?), stasera si esibiscono in un ambiente più congeniale. Piccolo. Adatto a un duo con violino, fisarmonica e qualche percussione. La prima volta che li ho visti suonavano in un prato accanto a una griglia ricolma di salamelle: quella è la loro dimensione ideale, ma anche il piccolo club dovrebbe rendere come si deve. Non può succedere come l'altra volta, questo posto so bene dov'è (e l'introvabile Garage è stato beccato sprovvisto di permessi per la musica dal vivo, stanno spostando tutti i prossimi concerti).

A HAWK AND A HACKSAW
ARCI BIKO (Mi)
1 aprile 2008
h. 22:00
ing. 6 € con tessera ARCI

lunedì 31 marzo 2008

I concerti del weekend


Venerdì sera Rhys Chatham: accompagnato dalla crema della sperimentazione milanese, il newyorkese presenta un concerto che sembra il perfetto anello di congiunzione fra i Velvet Underground strumentali e i Sonic Youth. Approccio rock quindi, molto diverso e molto più casinista di quanto proposto normalmente da O' Artoteca. Ho sbagliato nel post precedente a liquidare Chatham come "epigono dei Sonic Youth" - non si può sapere tutto - se quel che ha suonato corrisponde a quel che ha detto («eseguiremo "Guitar Trio" nel modo più fedele possibile all'originale degli anni Settanta»), non è epigono, ma ispiratore. Il caro Jason chiede «come mai questo riesce a tirare un accordo per mezz'ora e risulta piacevole, mentre se lo facciamo noi fa schifo?». Perchè è di New York e non di S.Stefano Ticino o di Rovato o di Forlimpopoli, è questione di genetica. Dopo un'ora di concerto Chatham ha ancora voglia di suonare e, nonostante le rimostranze dei gestori che temono le rappresaglie del vicinato, esegue coi suoi un bis di cinque minuti, atonale e assolutamente irritante per la vecchia del piano di sopra. Interessante il video di immagini a lentissima dissolvenza (di Robert Longo), peccato siano riusciti a far funzionare il lettore dvd solo dopo tre quarti d'ora di tentativi. Risultato: gran parte del concerto in bicromia blu e nera, due colori che sono geneticamente non miei.

Domenica pomeriggio invece il Fuco si è recato al teatro dell'Opera. Non vado mai a vedere la musica classica, ma stavolta si è verificato un evento straordinario nel suo campo, ovvero il compositore che dirige la propria musica. E non un compositore qualunque, ma uno dei maggiori del Novecento, celebre ai più per aver prestato le proprie musiche a Shining di Kubrick. Sembrava di stare al gerontocomio, però il profumo (un melange fra segheria e magazzino dell'Ikea, la sala è tutta foderata in legno) sprigionato dall'Auditorium di Milano è assai gradito alle nari. Di musica classica capisco meno che di jazz, quindi non posso dire altro che "bravi" all'orchestra e al direttore. Krzysztof Penderecki dirige prima un brano proprio (del 2001), ricco di percussioni e suggestioni cinematografiche tese e oscure, con un trio di violoncelli in primo piano, e poi la Quarta di Beethoven, una delle sinfonie meno conosciute che, in effetti, non ha temi portanti memorabili. Mi devo fidare del pubblico di grandi invalidi che si è spellato le mani richiamando i protagonisti sul palco quattro o cinque volte. Certo che gli organizzatori sembrano voler allontanare intenzionalmente il pubblico da appuntamenti come questo. Sul programma ufficiale (che contiene anche una selezione di ricette polacche in omaggio al direttore, pancione di caratura internazionale - viva la minestra di maiale e fagioli!) c'è una lettura critica dell'opera di Penderecki che solo altri direttori d'orchestra credo siano in grado di comprendere.

Cito la boiata pazzesca: «il Tranquillo spegne l'intreccio "passionato" (come prescritto agli interventi dei solisti) nella pace di una quinta vuota Do-Sol, la cui indeterminatezza era presagita dal repentino passaggio da maggiore a minore delle triadi che caratterizzavano il ritornello basato sull'Adagio, e che "risolve" l'ambito di trìtono Do-Sol bemolle del motivo di apertura». Insomma mancano solo l'occhio della madre e il montaggio analoggico. A completare l'atmosfera fantozziana contribuisce l'elenco completo di titoli, cariche e onorificenze detenuti dal cardinal conte duca Penderecki. Mancano solo lup. mann., gran. figl. di putt. e la coppa Uefa. Sarò pure un ignorante, ma non ho bisogno di sapere di trìtoni o quinte vuote per apprezzare la musica - io ci vado lo stesso e ascolto con lo stesso atteggiamento che ho al cospetto dei Motörhead, ma con tirate così inutili e pretenziose ti giochi un bel novanta per cento del pubblico potenziale, quello col complesso d'inferiorità al cospetto della kultura. Cazzi loro.