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lunedì 19 gennaio 2009

L'asse Roma / Berlino / Tokyo


Domenica sera di metà gennaio offuscata da nebbiolina giallastra. Viale Certosa offre un assortito catalogo di travanda; in fondo, il cimitero. Nello spiazzo antistante, ricoperto da una patina di neve marrone, si sono dimenticati di demolire una cascina semidiroccata (c'è anche una specie di edicola - massimo dieci metri quadri - che porta la scritta "mercato comunale coperto" - cos'è, un mercato per nani? Dovrò indagare). Nella cascina semidiroccata che sgocciola neve da tutte le parti (colpito da goccia gelida sulla noce del capocollo - bestemmia a riflesso condizionato) si esibisce il cantante di uno dei gruppi più influenti della storia del rock (sì, è un altro capitolo della saga "Milano è attenta alla cultura e ai giovani e la nostra è una città dal respiro e dalle dimensioni europee").

Insomma, in un contesto urbanistico ignobile e inasprito dal gelo, che porterebbe perfino un geometra a suicidarsi tramite ripetute testate contro il bordo del marciapiede (il medico curante di Renzo Piano ha stilato un elenco di zone interdette - per questioni di vita o di morte - al celebre architetto), c'è Damo Suzuki dei Can. Roba da non crederci. E non è la solita vecchia gloria che si comporta da solita vecchia gloria confidando nella presenza dei soliti fan acritici. Il suo progetto Damo Suzuki's Network lo porta già da diversi anni ad esibirsi in compagnia di musicisti sperimentali locali. Quindi ogni concerto, partendo da un canovaccio di base su cui improvvisare, è diverso da tutti gli altri per strumentazione, background e sensibilità dei musicisti coinvolti (l'ensemble di ieri sera, guidato dall'onnipresente Xabier Iriondo, si basava su due slide guitar elettriche e batteria - roba strana e abbastanza diversa da quella che vedete nel video, filmato a Sheffield).

Ma per gustarsi la leccornia, il piatto forte, la morale cristiana insegna che prima bisogna fare penitenza ("prima il dovere, poi il piacere"). Il supplizio (non così tremendo a dir la verità, ma interminabile e completamente fuori tema) si chiama Trance Meeting, dalla Puglia. C'è sto tizio, sicuramente un ex rasta, che deve necessariamente suonare tutta la sua collezione di quarantasette tamburelli mediterranei del cazzo. Che tanto poi, microfonati (con un inedito "microfono da polso") e filtrati attraverso un groviglio di cavi, diventano techno-trance uguale a quella del 1991, quindi bastava usarne uno di tamburello, tanto poi hai gli effetti. Invece no, deve suonare ogni singola percussione per almeno mezz'ora. L'apice patetico lo raggiunge quando si cimenta alla caccavella: vista la particolare tecnica con cui si deve suonare questo curioso oggetto folkloristico, ai lettori omosessuali piacerà sapere che il signor Trance Meeting è bravissimo a fare le seghe. E dire che i suoni in sè sono anche piacevoli all'ascolto (la caccavella microfonata produce un drone profondo e potente, piacerebbe ai Sunn O))) se suonarla in pubblico non fosse così umiliante), ma l'insieme folklore-elettronica fa tanto mondialismo della mutua, è tutto troppo uguale a sè stesso, dura troppo e l'accuratezza tecnica non fa certo parte del bagaglio culturale di quest'uomo (facendo musica che deve essere precisa e ripetitiva, non è bello). La membrana della caccavella è assicurata al corpo cilindrico dello strumento con la cinghia della tapparella, la stessa che usavano gli emigranti per tenere chiusa la valigia di cartone. La trance ha scassato i coglioni, la minimale ha rotto il cazzo e la massimale ha fracassato la minchia. Sotto l'effetto della litania salentina si materializza dal nulla anche una punkabbestia col cane. Ho detto tutto.

Intervallo. Scappo al bar, dove si sono rifugiati tutti quelli che hanno un grado di sopportazione del Salento inferiore al mio, tra i quali ("Che ne dici di sta roba?" - "Fa schifo al cazzo") la fenomenale cantante degli Ovo, in Italia per completare le registrazioni di un nuovo album solista dopo quello del 2006. Mi riprendo dallo scoramento grazie a un bicchierino di Zubrowka, la vodka più buona del mondo, aromatizzata con un'erba caratteristica della foresta di Białowieża e particolarmente gradita ai bisonti. Tale erba contiene cumarina (topicida, in massicce quantità). Va quindi bevuta "con moderazione" ed è pure vietata in molti paesi, ma è troppo buona.

Passiamo all'angolo delle coincidenze. Xabier Iriondo (Mahai Metak - una sorta di slide, chitarra elettrica, oggetti), Maurizio Abate (slide guitar, chitarra elettrica, armonica), Daniele Malavasi (batteria), Maikko e MM (live electronics) sono musicisti italiani (Roma). Damo Suzuki è un cantante giapponese (Tokyo) ma ha raggiunto la fama prestando la propria voce a una straordinaria band tedesca e ha sempre abitato in Germania (Berlino). Unite i nomi delle città con un tratto di penna ed ecco il titolo di questo post. Il concerto si svolge sotto l'egida di un centro sociale, i cui esponenti e gran parte dei frequentatori in questo momento storico di sicuro non appoggiano posizioni politiche filosemite. Che poi devo ancora capire quale sia l'appeal delle faccende israelo-palestinesi presso l'opinione pubblica. Contemporaneamente ci sono nel mondo circa 25 altre guerre al confronto delle quali Gaza è una rissa da bar. La guerra in Congo, ad esempio, è infinitamente più cruenta e sanguinosa, mine antiuomo dappertutto, fanno combattere i bambini, ci sono profughi (al cui confronto i palestinesi sono alta borghesia), curiose malattie come Ebola. Mi sta sui coglioni: in Congo ci sono i gorilla (animali simpatici), la vera foresta pluviale, dei luoghi fenomenali, miliardi di tonnellate di materie prime di ogni tipo e c'è perfino gente che ha la forza di fare musica della stramadonna. L'apporto dato da Israele/Palestina all'umanità è invece paragonabile a quello del Liechtenstein: pompelmi, uno che piegava i cucchiai con la forza del pensiero, la fidanzata di Leonardo Di Caprio. Dal punto di vista paesaggistico sembra la periferia di Caserta trapiantata su una pietraia. Materie prime neanche a parlarne. Rotture di balle, au contraire, tantissime, a cominciare da questo qui. E una massa di teste di cazzo che si menano per questioni di principio. E gli italiani si schierano, prendono posizione, fanno il tifo (curiosamente quest'anno la kefiah è di gran moda, reinterpretata dai maggiori stilisti in colori trendy). L'unica soluzione è lasciar fare, tanto non la smettono. Scommesse?

Torniamo al noise. Damo Suzuki, colpito da logorrea, canta con parole inintelligibili (o forse proprio inventate) per una bella ora e mezza, Iriondo gioca con la Mahai Metak, la massacra con vari strumenti da cucina e non (paglietta di ferro, batticarne, animaletti di plastica, biglie), usa pure un altro strumento mai visto prima che è una specie di slide con tasti come quelli delle macchine da scrivere di una volta. Mah. Misteri senza nome dalle profondità dei magazzini di Sound Metak. Bello, ipnotico, sempre sull'orlo della ripetizione fine a sè stessa dalla quale i nostri si districano con classe. E poi hai a mezzo metro uno che davvero ha fatto la storia, e al quale la struttura da fienile della Cascina Torchiera avrà ricordato non poco le atmosfere dello Schloss Nörvenich, dove provavano e registravano i Can nei primi anni 70. Ve l'ho già detto che un concerto lo vedi bene quando vedi che scarpe indossano i musicisti?

Per concludere in bellezza e per ripagare chi ha letto fino in fondo ecco una bella roba da scaricare: Zhengzheng Rikang, bootleg semi-ufficiale dei Can pubblicato nel 2006 che raccoglie un po' di alternate takes degli albori del gruppo tedesco (1968/69), con Malcolm Mooney alla voce invece di Suzuki (che arrivò dopo). Registrato molto bene in studio, non quelle cagate fatte col walkman, pubblicato solo in vinile, mai incidentato, gomme nuove, meccanica a posto, praticamente perfetto (il link lo trovate nei commenti).

venerdì 19 dicembre 2008

Le mirabolanti gesta del Fuco in chiesa


C'è questa manifestazione che si chiama "La musica dei cieli", fatta per attirare in chiesa gente cui non frega un cazzo - e infatti la serata comincia con doppia omelia - i preti non evitano mai il tentativo di proselitismo - purtroppo gli infedeli delle nostre parti hanno perso l'abitudine di farli a pezzi.

Due parole sulla location. La chiesa dei SS. Gervaso e Protaso di Novate Milanese si bulla di esistere fin dal 1042. La struttura architettonica visibile oggi è opera dell'insigne Ugo Zanchetta che la ristrutturò nel 1934 con marmi policromi, colonne lombarde lucidissime (panciute come panettoni e cumènda, lontane dallo slancio della colonna classica greca ma sintomatiche dei quattro comandamenti regionali: lavoro, guadagno, spendo, pretendo), capitelli a guanciale, tabernacolo a gazebo memore della belle epoque californiana. E' come trovarsi nel palazzo imperiale di Nerone - se solo l'avessero progettato i grafici di Final Fantasy (non proprio, dai: purtroppo lo Zanchetta non cerca di stupire e il senso delle proporzioni non è nelle sue corde, si ispira all'understatement della buona borghesia di una volta). Il tutto è di una banalità sconcertante, d'altronde l'architettura cattolica è da più di un secolo la palestra del giovane palazzinaro. Comunque questo è niente rispetto alle nefandezze che lo stile è riuscito a produrre in tempi più recenti.

Off topic: una canzone di Robert Wyatt intitolata Catholic Architecture - forse sarebbe ora di intitolargli una cattedrale, la Basilica di Babbo Natale Paralizzato - un gran colpo sarebbe anche solo averlo alla prossima edizione della Musica dei Cieli.

Ma passiamo agli highlights. Bonnie "Prince" Billy con barba da apostolo taglialegna, 38 anni ma ne dimostra 60, grandi sorrisi, tentativi di esprimersi in italiano (e c'è un grande manifesto con foto autentica di Gesucristo sul quale campeggia la scritta "il precursore" che l'ha fatto molto ridere). Si scopre che è stato per la prima volta a Milano nel 1989, quando, diciannovenne, era in viaggio verso l'India con la madre - presumo fricchettona. Se sapessero che quest'uomo è figlio della droga (probabilmente anche fratello, vedasi eloquente galleria fotografica - quest'altra foto fuga ogni possibile dubbio) di certo non parteciperebbe alla rassegna. E infatti Bonnie Prince sembra un po' zavorrato, imbarazzato dalla situazione - pur presentando un concerto da brividi, in cui riarrangia fino a renderli quasi irriconoscibili molti suoi brani classici (da "I See a Darkness" a "Arise Therefore", addirittura del repertorio dei Palace). Chitarra acustica, elettrica (garbata), violino e coro polifonico. I due comprimari che lo accompagnano sono assolutamente all'altezza, gli arrangiamenti elegantissimi, la voce unica. L'ampio spazio ecclesiastico dà quell'accenno di riverbero che ci sta proprio bene. Un grande artista. Quando attacca "I See a Darkness" (interpretata a suo tempo anche da Johnny Cash - son soddisfazioni) un invasato nel banco davanti al mio leva le braccia al cielo e crolla singhiozzante e genuflesso. Scommetto che il parroco non c'è mai riuscito.

Mai probabilmente la chiesa dei SS. Gervaso e Protaso è stata teatro di applausi così scroscianti (in questi casi temo sempre il crollo improvviso, come quella leggenda metropolitana secondo cui un vetro antiproiettile resiste alle raffiche di mitra, ma basta toccarlo delicatamente in un certo punto e si frantuma in mille pezzi). E per vedere una tale affluenza di pubblico bisogna risalire al matrimonio della più figa del paese. Novate non è nota per le sue bellezze muliebri, però il compaesano parrucchiere di Miss Italia nonostante il cognome infelice può mettere una pezza agli scherzi di Madre Natura. Ma perchè non fanno come una volta, "Coiffeur pour dames" in neon corsivo e via andare?

venerdì 12 dicembre 2008

Blues for Godzilla




Se c'è una cosa che mi fa girare i coglioni è quando qualcuno si appropria di titoli che non gli competono. Uno sport in cui, come sempre quando si parla di difetti, gli italiani sono costantemente ai primi posti delle graduatorie mondiali. "Vasco è un rocker". "Zucchero è un bluesman". NO. Un emiliano grasso non potrà mai essere un bluesman, e anche per il rocker ci sono ben poche possibilità (qualcuno effettivamente c'è ma non il mai più nominabile bollito di prima). Anche all'estero non scherzano. L'abuso delle parole "punk" e "funk" nella stessa frase, ad esempio. Spesso aggravata dalla vicinanza di nomi propri di gruppo musicale che contengono della punteggiatura. NO. Tutti questi che mi rifiuto di nominare per intero non sono e non potranno mai essere "punk" o "funk". Sono froci. Non sono certo animati da furia, rabbia o vera incazzatura. Non hanno il tiro necessario. Non hanno imparato il ritmo giusto, perchè davanti alla loro finestra non è mai passato il treno (urbano o interurbano ha poca importanza). Frignano come lattonzoli mentre la lama del norcino si approssima alla giugulare ("ti preeego, non mangiaaarmi!").

Meno male che ci sono i BellRays. E la loro leader, Lisa Kekaula, che sta diventando una vera Big Mama (al momento è cintura nera 2° Dan, lo scatto di livello quando prenderà altri 15-20 chili). Arrivano loro, e quelle due parole di quattro lettere che messe vicine hanno poco senso improvvisamente prendono vita. Punk: il chitarrista, impresentabile d'aspetto (sembra Dana Carvey, non è una bella cosa), è un martello di fuoco. Funk: lei, la Negra (ovvio), capelli a microfono e atteggiamento ma chi cazzo siete voi. Ma anche il bassista (che vedrei bene in fila al centro d'arruolamento dei marines - cresciuto in una roulotte - parlando di sua madre dice "mia sorella") è una grossa palla di gomma che rimbalza giù per le scale. Il batterista è un perfetto uomo qualunque sul rapido delle 18:32. Ma tanto, i batteristi, chi li guarda mai. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Cosa aspetta questa gente a pubblicare un disco dal vivo. Ma cosa aspetta. I pezzi che potete ascoltare sopra sono solo una pallida e fuggevole ombra della vita reale.

mercoledì 10 dicembre 2008

Concerto indimenticabile (non ho detto bello, ho detto indimenticabile)


Introdotti dai solidi (per qualcuno soliti) Fuckvegas, gli indescrivibili Shit & Shine si presentano sul palco: due batterie contrapposte, bassista con basso a due corde, cappuccio da coniglio e maschera blu, chitarrista-tastierista acconciato come sopra, più un tizio che tiene in mano un coniglietto a batteria e non si capisce cosa faccia (sa cucinare? è l'autista? è un esperto di drinking games? fa dei pompini fantastici?). I due batteristi (uno dimostra cinquant'anni e l'altro venti), in giubbotto ANAS, mostrano propensione al lavoro ripetitivo e alienante: eseguono un esercizio di batteria all'unisono, sempre identico per un'ora e passa. Il concerto degli Shit & Shine è tutto qui, perchè gli altri due si limitano a fare casino (tanto, sverniciante) sopra questo ritmo meccanico e interminabile. Ah, c'è anche il tizio misterioso che ogni tanto accarezza il coniglietto. Forse qualcuno ricorda un momento del serial Duracell (quarta stagione, episodio 7) in cui il coniglietto rosa amico di tutti suona il tamburo e sbaraglia la concorrenza fatta di coniglietti rosa amici di tutti che suonano il tamburo ma sono alimentati da normali pile zinco-carbone. Controllo quindi che i batteristi non abbiano sul dorso uno sportello a proteggere il vano batterie: non ce l'hanno (ehm... evito ispezioni anali), ma al loro posto potrebbe esserci quel robot batterista presentato qualche tempo fa da non so quale azienda giapponese, la sostanza non cambierebbe. E mi chiedo perchè uno decida di fare il musicista quando si divertirebbe di più alla catena di montaggio (con stipendio sicuro).

Come ben sanno produttori, programmisti radiofonici e uffici stampa promotori di musica stupida, basta suonare un brano qualunque fino allo sfinimento e all'ascoltatore medio piacerà. Il metodo che funziona perfettamente con Vasco e Nek viene sadicamente fatto proprio dagli Shit & Shine. Alla lunga il pubblico va via o resta come pietrificato (molti hanno i tappi nelle orecchie). Qualcuno ha l'incoscienza di chiedere il bis. E comunque questa non è roba nuova, Rhys Chatham persegue gli stessi obiettivi degli Smerda & Lucida da almeno trent'anni. E sul primo disco dei Liars (2001) c'è un brano di oltre mezz'ora che sembra un loop, tanto è ripetitivo. Non lo è.

Durante la tormentosa performance degli anglosassoni, si scatena la tormenta di neve. Il chiasso del furgone spargisale diventa musica. Tutto sommato indimenticabile (come lo è assistere a una fucilazione).

Comunicazione di servizio: il blog riapre a cadenza occasionale con contenuti ridotti e di qualità più scadente.

lunedì 31 marzo 2008

I concerti del weekend


Venerdì sera Rhys Chatham: accompagnato dalla crema della sperimentazione milanese, il newyorkese presenta un concerto che sembra il perfetto anello di congiunzione fra i Velvet Underground strumentali e i Sonic Youth. Approccio rock quindi, molto diverso e molto più casinista di quanto proposto normalmente da O' Artoteca. Ho sbagliato nel post precedente a liquidare Chatham come "epigono dei Sonic Youth" - non si può sapere tutto - se quel che ha suonato corrisponde a quel che ha detto («eseguiremo "Guitar Trio" nel modo più fedele possibile all'originale degli anni Settanta»), non è epigono, ma ispiratore. Il caro Jason chiede «come mai questo riesce a tirare un accordo per mezz'ora e risulta piacevole, mentre se lo facciamo noi fa schifo?». Perchè è di New York e non di S.Stefano Ticino o di Rovato o di Forlimpopoli, è questione di genetica. Dopo un'ora di concerto Chatham ha ancora voglia di suonare e, nonostante le rimostranze dei gestori che temono le rappresaglie del vicinato, esegue coi suoi un bis di cinque minuti, atonale e assolutamente irritante per la vecchia del piano di sopra. Interessante il video di immagini a lentissima dissolvenza (di Robert Longo), peccato siano riusciti a far funzionare il lettore dvd solo dopo tre quarti d'ora di tentativi. Risultato: gran parte del concerto in bicromia blu e nera, due colori che sono geneticamente non miei.

Domenica pomeriggio invece il Fuco si è recato al teatro dell'Opera. Non vado mai a vedere la musica classica, ma stavolta si è verificato un evento straordinario nel suo campo, ovvero il compositore che dirige la propria musica. E non un compositore qualunque, ma uno dei maggiori del Novecento, celebre ai più per aver prestato le proprie musiche a Shining di Kubrick. Sembrava di stare al gerontocomio, però il profumo (un melange fra segheria e magazzino dell'Ikea, la sala è tutta foderata in legno) sprigionato dall'Auditorium di Milano è assai gradito alle nari. Di musica classica capisco meno che di jazz, quindi non posso dire altro che "bravi" all'orchestra e al direttore. Krzysztof Penderecki dirige prima un brano proprio (del 2001), ricco di percussioni e suggestioni cinematografiche tese e oscure, con un trio di violoncelli in primo piano, e poi la Quarta di Beethoven, una delle sinfonie meno conosciute che, in effetti, non ha temi portanti memorabili. Mi devo fidare del pubblico di grandi invalidi che si è spellato le mani richiamando i protagonisti sul palco quattro o cinque volte. Certo che gli organizzatori sembrano voler allontanare intenzionalmente il pubblico da appuntamenti come questo. Sul programma ufficiale (che contiene anche una selezione di ricette polacche in omaggio al direttore, pancione di caratura internazionale - viva la minestra di maiale e fagioli!) c'è una lettura critica dell'opera di Penderecki che solo altri direttori d'orchestra credo siano in grado di comprendere.

Cito la boiata pazzesca: «il Tranquillo spegne l'intreccio "passionato" (come prescritto agli interventi dei solisti) nella pace di una quinta vuota Do-Sol, la cui indeterminatezza era presagita dal repentino passaggio da maggiore a minore delle triadi che caratterizzavano il ritornello basato sull'Adagio, e che "risolve" l'ambito di trìtono Do-Sol bemolle del motivo di apertura». Insomma mancano solo l'occhio della madre e il montaggio analoggico. A completare l'atmosfera fantozziana contribuisce l'elenco completo di titoli, cariche e onorificenze detenuti dal cardinal conte duca Penderecki. Mancano solo lup. mann., gran. figl. di putt. e la coppa Uefa. Sarò pure un ignorante, ma non ho bisogno di sapere di trìtoni o quinte vuote per apprezzare la musica - io ci vado lo stesso e ascolto con lo stesso atteggiamento che ho al cospetto dei Motörhead, ma con tirate così inutili e pretenziose ti giochi un bel novanta per cento del pubblico potenziale, quello col complesso d'inferiorità al cospetto della kultura. Cazzi loro.

martedì 18 marzo 2008

Arriva la madama


Stasera curioso evento in un posto a me ignoto, il Circolo Culturale La Scheggia. Madame P (video) costruisce loop elettronici di voci e sonorizza un film muto del 1919. La Madama oltre a essere molto brava e a poter vantare numerosi tour americani ed europei, è anche amica mia quindi la garanzia di qualità è assicurata.

MADAME P sonorizza MADAME DUBARRY di ERNST LUBITSCH (1919)
CIRCOLO CULTURALE LA SCHEGGIA (Mi)
18 marzo 2008
h. 21:00
Dovrebbe essere gratis con tessera (e un'altra inutile tessera andrà a gonfiare ulteriormente un portafoglio pieno di tessere e biglietti da visita - soldi pochissimi, e quasi tutti di metallo, pesanti e che non valgono un cazzo)

Due parole su ieri sera: al Blue Note trattamento principesco, accredito e tavolo riservato, peccato non permettano di filmare. Di fotografare sì, di filmare no. Comunque ottima prova dei due mostri sacri più un "giovane". Siamo ai confini del jazz. Quello che hanno suonato viene considerato jazz per convenienza e curriculum dei musicisti, perchè hanno il sax e la tromba. Ma io lo definirei piuttosto "noise acustico", o "musica contemporanea", qualcun altro potrebbe anche dire "roba pallosa e seriosa da intellettuali borghesi di sinistra". Solo Wadada Leo Smith (alla tromba) in qualche passaggio mi ha ricordato che questa dovrebbe essere la musica dei negri. Mitchell si è esibito in un paio di sfuriate al sax in respirazione circolare (come si faccia non lo capirò mai) e Harrison Bankhead, il "giovane" (cinquant'anni, centoottanta chili, vestito con una specie di tendaggio cinese coi draghi ricamati) al contrabbasso e violoncello, è un mostro. Sa tirar fuori dai suoi strumenti una varietà di suoni che non credevo possibili. Sono tre solisti fenomenali, che mi hanno infatti convinto pienamente quando hanno suonato da soli, un po' meno in ensemble. L'impressione è che la formazione in trio appiattisca le genialità e le asperità di ognuno. Opinione personalissima e discutibilissima, io di jazz non so un cazzo, non capisco un cazzo e non voglio nemmeno capire. Mi piace e basta.

giovedì 13 marzo 2008

Attributi





In viale Enrico Fermi ci sono la camera mortuaria dell'ospedale, un nutrito parterre di puttane, un gigantesco dinosauro di gomma appeso a un traliccio e il Legend 54. Al Legend 54 hanno suonato i Chesterfield Kings. I Chesterfield Kings hanno un cantante decisamente ambiguo e un roadie con maschera da lottatore messicano che lancia grossi palloni gonfiati in mezzo al pubblico. Miscela instabile di Rolling Stones, Stooges, New York Dolls, Dead Boys, esplosivi. Per la perfezione mancava solo la rete da pollaio a cintare il palco. Buoni anche i Cavemen in apertura, bitt italiano dalla terra del lissio. Oggi sono telegrafico, lunghezza del post inversamente proporzionale alla statura dei Chesterfield dal vivo.

lunedì 10 marzo 2008

Elfi vs. orchi (vincono gli orchi)





Vai per vedere i Black Dice (cioè, massacro) e ti ritrovi in apertura di concerto una fighetta islandese che suona folktronica coi piedi. Non è il solito eufemismo: questa davvero aziona i tasti del sequencer e dei vari effetti collegati alla voce e alla chitarra coi piedi. Nudi. Particolare che, unito a un aspetto da elfo sedicenne (ma si sa, gli elfi ne dimostrano sedici e ne hanno settemilaottocento), avrà fatto sussultare più di una mutanda. Vale anche l'eufemismo: suona coi piedi, in qualunque modo vogliate interpretarla questa affermazione è vera. Ha qualche buono spunto e una voce così flebile da non sembrare umana (aveva il cappuccio, non si capiva se le orecchie erano a punta), ma è davvero troppo inesperta per potersi presentare su un palco. Ho le mie idee maschiliste sul motivo recondito della sua presenza in tour con un gruppo di sadici del rumore, inutile che ve lo dica chiaro e tondo, potete arrivarci da soli. In ogni caso alla Fica (bevitrice di whisky, un più sul registro) si perdona tutto, quindi applausi scroscianti.

L'approccio dei Black Dice ai loro marchingegni è quello di un bambino di tre anni alle prese con l'album da colorare: se ne frega di rispettare i contorni e scarabocchia. Ma, con lo scorrere dei minuti, lo scarabocchio si trasforma in qualcosa di compiuto, pesantissimo e davvero cattivo. Carta vetrata che ti raschia la corteccia cerebrale. Hanno anche una parvenza di groove - industriale, lento, scandito - che fa ondeggiare qualche testa. Sono un'evoluzione anarchica del sound dei Pan Sonic. Non c'è soluzione di continuità, le "canzoni" finiscono quando i tre newyorkesi mollano le manopole per sorseggiare la birra, mentre il suono si avvita su sè stesso, in picchiata verso uno schianto inevitabile. Deglutito il liquido giallo, come aviatori alcolizzati riprendono le cloche ed evitano per un soffio lo stallo che prelude alla catastrofe. Ovviamente nessuna concessione al pubblico e niente bis, light show coloratissimo, qui un'altra dimostrazione visiva della loro crudeltà. Ora, se mi dicono che i Black Dice a New York si esibiscono nel giro delle gallerie d'arte trendy, ci credo, hanno l'autorità per farlo. Sono strani, potenti, visionari, fuori dagli schemi, hanno uno stile personale. Cosa ci facciano questi altri nel giro delle gallerie d'arte newyorkesi rimarrà per sempre un mistero.

martedì 4 marzo 2008

QUESTO è indie. QUESTO è emo.


La trasfigurazione del blues. Certo il concetto di blues degli Uzeda non è quello canonico delle dodici battute. Ne esumano il corpo, lo disossano. E ricompongono l'ossatura in modo asimmetrico, doloroso, sbagliato. Modificazioni corporee radicali che non permetterebbero il corretto funzionamento motorio, se non con la forza dei nervi, urlando e zoppicando. E ci sono un andamento scaleno, una chitarra che urla e una donna che urla. Quest'ultima nel video si sente poco ma ho dovuto operare una scelta: o mi metto sotto il palco e filmo quello che succede con l'audio che esce dai monitor (quindi chitarra a palla e voce bassissima) o mi metto più indietro, sento bene ma poi non posso farvi vedere TeleFuco. Nonostante il batterista non sappia cosa siano i quattro quarti (non esce un ritmo quadrato dai suoi tamburi), gli Uzeda sono quadrati dentro. Non sbagliano mai, sono millimetrici, esperti, affiatati, concitati. Disperati, al punto di stupirsi ancora come bambini davanti all'ovazione dei fans. E' proprio vero che l'umiltà è la virtù dei grandi. Qui altri video da questo grande concerto: uno, due, tre, quattro e cinque. Chiudo con una domanda: quanti gruppi italiani possono vantare le Peel Sessions nella propria discografia? Ve lo dico io. Uno.

lunedì 3 marzo 2008

Calo il tris d'assi




Due video su tre concerti visti giovedì scorso, manca quello di Stefano Pilia perchè ha suonato al buio ma ha comunque offerto una performance all'altezza delle altre due. Nei video sopra vi potete vedere i concerti interi. Tre showcase molto brevi ma meglio così, non c'è tempo per stufarsi e in galleria non c'è il bar, mi stava venendo al gola secca (ho ispezionato il cesso nella speranza del lavabo, ma niente - gabinetto minimalista con la tazza e basta). Stefano Pilia, dicevamo, è un chitarrista che fa parte (con Rocchetti) dei post-rockers 3/4HadBeenEliminated, un altro gruppo che ottiene più consensi all'estero che in Italia (pubblicano per la pettinata® Soleilmoon, che conoscerete senz'altro se vi piacciono Hafler Trio, Muslimgauze o Legendary Pink Dots). Niente post-rock nel suo concerto solista ma trame di chitarra ambient melodiche e molto effettate che mi ricordano uno Scott Tuma meno country (Tuma potevate scaricarlo da qui qualche mese fa, se non l'avete fatto cazzi vostri). La formula escogitata per i tre concertini (venti minuti di concerto-venti minuti di pausa) funziona, è fresca, tranne che per la mia gola, e raduna un pubblico ben più ampio di quello che mi aspettavo. Anche Claudio Rocchetti tralascia il post rock e si dedica a un set elettroacustico che col passare dei minuti sfocia nel rumore puro, lancinante come un treno che deraglia (potente, ma anche il concerto più convenzionale della serata, comunque ben venga). Belfi (batterista dei Rosolina Mar) cambia completamente genere ancora una volta. Batteria amplificata con un microfono volante, vari oggetti percussivi, spazzole, loop, registrazioni radiofoniche: psichedelia sporca e ancestrale, la mia registrazione difetta in qualità, ma vi assicuro che è davvero bravo, misurato ed evocativo. Tutta roba di lusso che nel cosiddetto festival di riferimento dell'underground italiano non finirà mai, perchè non fanno pop di merda (suonando al MiAmi si consegue il certificato di inutilità). Domani vi racconto di un altro gruppo spettacolare accomunato dallo stesso destino.

martedì 26 febbraio 2008

Sono familia povera senza casa senza lavoro

Quando mai ho deciso di presentarmi al concerto di ieri sera (Leoncavallo - Japanther + Vortex Rex - ricordate?). Una vergogna. La cornetta del telefono che ho fotografato e che i Japanther usano crudelmente come microfono mi ha confidato in segreto: "ho fatto credere a mia madre di essere implicata in un giro di intercettazioni vip - ti prego salvami". Dice che se sua madre sapesse la verità, cioè che due impediti la usano per sputacchiarci dentro, finirebbe diseredata. I Japanther probabilmente sono stati cacciati dagli Stati Uniti col foglio di via, non c'è altro motivo per trovarli in Europa. Non sarebbero mai dovuti uscire dal loro quartiere, ma che dico, dal loro garage. Un concertino di venti minuti: la sagra dell'errore, della canzone lasciata a metà (è successo almeno quattro volte). Facessero musica difficile da suonare poi. In confronto i Ramones fanno speed metal sinfonico. Da quanto dedotto dai video che si trovano in giro e da myspace sembravano almeno violenti. Manco quello. E metà del loro impatto sonoro è dato da un walkman con una cassetta con le basi incise sopra. Hanno pure sbagliato a farla partire. E fanno una fatica immane ad andare a tempo con la registrazione. Mi devo scusare pubblicamente con i Lightning Bolt per aver citato il loro nome a sproposito. Facendo un rapido calcolo: massimo una quarantina di paganti, tre euro l'ingresso fanno centoventi euro. Diciamo che venti euro se li sono tenuti gli organizzatori, avanzano cento euro da dividere tra due gruppi. Se i Japanther imparassero l'adagio degli zingari (da titolo) e andassero a far finta di suonare in metropolitana, alzerebbero più grana suscitando pietà. Pure con qualche spesa viva in più (dovrebbero pagare un biglietto per la batteria, che di sicuro rientra nella casistica dei "colli a mano particolarmente ingombranti"). I Japanther sono un gruppo degno della Quaresima. Coraggio, che fra neanche un mese lo inchiodano. Vendetta. Meglio consolarsi con il rock infantile.

La patetica esibizione dei due è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, prima c'erano tre sfigatissimi austriaci da sopportare. I Vortex Rex almeno cercano di sopperire alla pochezza tecnica e compositiva con la strumentazione strana. Chitarra, moog (d'epoca, ingombrante da portare in giro, che non sanno suonare e che comunque usano per due canzoni su dieci - perchè?), un'altra tastierina scrausa, vibrafono e due tamburi (col batterista che va fuori tempo a fare tupatupatupa...). Sembrano vagamente gli Half Japanese. Dopo la lobotomia però. Certo che entrambi i gruppi hanno davvero un bel coraggio.

Ma la devo smettere di prendere per il culo la gente meno fortunata, non sta bene. Sto per uscire dalla cantina del Leoncavallo quando sento una voce che mi chiama.

"Ehi, ma tu non sei Barnaba?".

"No, non sono Barnaba [in dio non credo ma penso di dover ringraziare qualcuno ndr]".

"Eh no perchè voglio parlare con qualcuno che sia andato a vedere i Polysics perchè io non sono potuto andare e volevo sapere come sono stati".

"Non sono andato a vedere i Polysics [e a quanto ne so, nemmeno Barnaba ndr]".

"Ti è piaciuto il concerto di stasera?".

"No [minchia, zero su tre al tiro, una percentuale di tutto rispetto ndr]".

"Ma dai, non erano male, e poi è lunedì sera, cosa pretendi".

Eh già, perchè il lunedì sera si giustifica tutto. Anzi, adesso mi è venuta fame, mentre torno a casa mi fermo dal mio kebabbaro di fiducia e mi prendo una vaschetta di falafel, però siccome è lunedì sera, invece di farmi mettere la salsa piccante gli chiedo gentilmente se può spalmarli di merda. Il kebabbaro stava guardando il festival di Sanremo. Anche per lui ieri era lunedì sera. Però "adeso prendo satelite, così vedo Premier Lig".

mercoledì 20 febbraio 2008

You'll never walk alone


Gli Earth radunano un nutrito pubblico. Sì, anche nel senso di "ben pasciuto" - basta la prestigiosa presenza della redazione di Solo Macello per alzare la percentuale di massa grassa degli astanti. Sir Richard Bishop spagnoleggia alla chitarra senza emozionare per sei ore - o almeno così mi è sembrato (diciamo che è stato una palla, via) quindi ci si trastulla fra birre e progetti di conquista militare del Vaticano. Gli Earth invece mantengono le promesse, ronzano come si deve e io sono in adorazione per il suono meraviglioso del loro piano elettrico. La batterista si muove con la sollecitudine del bradipo, non credo sia facile tenere dei tempi così lenti con la necessaria precisione. Nel video stavolta sono riuscito a beccare il momento topico: l'unico in cui hanno tirato fuori il trombone. Tra l'altro questa canzone è una bonus track che compare solo sulla versione in vinile del loro disco nuovo, quindi c'è della pettineria©. Credo anche di poter meglio congetturare sull'assenza dalle scene di Dylan Carlson (quello con berrettino, baffazzi e chitarra) fra il 1996 e il 2005: quei tatuaggi lì dicono "galera". Il titolo di questo post ha senso solo se prima dei concerti trepidavate davanti al megaschermo.

lunedì 18 febbraio 2008

Le regine delle nevi


Prendiamo una bilancia. Su un piatto mettiamo un metallaro ciccione. Sull'altro le Nisennenmondai. Per pareggiare i due piatti non basta il peso delle tre rachitiche figlie del Sol Levante, aggiungete come zavorra un fusto di birra. Ecco che lentamente la bilancia raggiungerà la posizione di equilibrio, ma cosa succede? Il metallaro ciccione in men che non si dica acchiappa il fusto, lo stappa e se lo scola, ricreando il disequilibrio iniziale. Già le giapponesi cominciano a pigolare come una nidiata di passerotti che si accapigliano per il vermiciattolo che la madre porge loro amorevolmente. Bisogna aggiungere un altro fusto di birra. Ma il metallaro, che è senza fondo e ha sempre sete, si scola anche quello. E così via. Acne di Zanzara ha inventato la macchina del moto perpetuo.

La prima cosa che colpisce del concerto delle Nisennenmondai è proprio la struttura fisica delle tre. La bassista, in particolare, è esile come un origami. Le è andata bene, nessuno degli spettatori della prima fila aveva la tosse, o si sarebbe fracassata contro la parete di fondo. Sono, probabilmente, le tre persone più riservate che abbia mai visto, rasentano quasi l'antipatia (quando si fanno pregare per un bis dopo neanche mezz'ora di concerto), ma è la tradizionale ritrosia della geisha al cospetto della spavalderia del samurai: mutismo e occhi bassi, le mani a ripetere movimenti rituali studiati per anni, che nel loro caso non sono quelli di una millenaria cerimonia del tè, ma quelli della cerimonia del krautrock. Un krautrock prigioniero del gelo dell'incomunicabilità, come quello dei Cluster, o degli Harmonia (sono praticamente identiche a questi ultimi), che parte sempre da un riff di chitarra mandato in loop e cresce con lentezza estenuante fino a una potente rullata liberatoria, orgasmica, che lascia ansimanti. Fanno quattro pezzi (dieci minuti l'uno) e sono tutti così. Secondo me suonano col tassametro, un tot a canzone. Però quanto sono brave, precise, quadrate. Intagliate nel ghiaccio.

Naturalmente, in vendita al banchetto, un cd che nella loro discografia ufficiale non compare, a ribadire l'odierna marginalità della musica registrata. Se lo comprate, d'estate potrete fare a meno dell'aria condizionata. Il camino scoppiettante che troneggia nella saletta del Torchiera scaldava come si deve, ma poi hanno suonato loro.

venerdì 15 febbraio 2008

Tre birre


Prima birra.

Seconda birra.

Terza birra. Per me vedere bene un concerto significa vedere che scarpe portano i musicisti. Per questo di solito evito gli eventi molto affollati, non sopporto di dovermi sporgere da dietro le spalle di qualche "armadio" per intravedere pochi istanti di ciò che succede sul palco. Peggio ancora è il megaconcerto, dove ci vorrebbe il telescopio e stai in mezzo ai peggiori effluvi emanati da migliaia di animali pressati. Una volta a un concerto al Forum di Milano (i Cure, mi pare) si era condensato talmente tanto sudore che ad un certo punto ha cominciato a piovere dal soffitto un liquame disgustoso, osceno distillato di umanità. Nemmeno se potessi assistere dal vivo alla crocifissione (quella famosa, non una qualunque) affronterei ancora una situazione così schifosa.

I concerti "minori" di un posto come il Magnolia sono invece una pacchia. Ci sono trenta persone, mi metto in prima fila, appoggio la birra sul palco, filmo, faccio qualche foto. Ieri sera rude happening rurale. Di solito direi "è una vergogna che questi musicisti raccolgano così pochi consensi mentre Tizio che è una merda che cammina riempie gli stadi ecc. ecc." ma alla fine, per mia egoistica comodità, è meglio così. The Big Sound Of Country Music suona molto bene, il suo set è un tributo al più classico country blues. Mette un microfono sotto una scatola di legno, ci batte i piedi sopra (si chiama stompbox), et voilà la sezione ritmica. I Dirty Trainload (a mio parere i migliori della serata) fanno garage blues, ma molto evoluto e con strumentazione fantasiosa (una tastierina scrausa al posto del basso, il coperchio di un fusto di birra come percussione a pedale aggiuntiva), sono assai poco tradizionalisti, a tratti creano atmosfere lynchane, alla Badalamenti. Altrettanto fantasiosa la strumentazione di Honkeyfinger (la sua barba è maggiorenne), che amplifica l'armonica a bocca, ci canta dentro e crea dei loop di chitarra slide in diretta per avere le mani libere. Forse è un po' carente dal punto di vista del songwriting (l'autarchia totale che caratterizza il suo stile non consente un gran che), ma diamogli tempo, è agli esordi, tecnicamente e furiosamente va alla grande. Questa gente, pur avendo fonti d'ispirazione antichissime, è proiettata nel futuro: nessuno aveva il banchetto dei dischi, destinati a diventare entro breve oggetti promozionali di secondaria importanza, atti solamente a pubblicizzare i concerti. Come le spillette, che Honkeyfinger regalava a manciate. Allo stesso tempo ho notato una curiosa iniziativa su un manifesto dei Linea 77 che annunciava uno showcase di presentazione del loro nuovo disco: "si entra solo col disco in mano": ecco, questi vivono nel passato, e sono pure stronzi.

mercoledì 30 gennaio 2008

I got a thing inside my pocket. It's rock'n'roll


Ieri nel descrivere il declino della carriera di Jon Spencer mi sono dimenticato di citare la mossa più recente e imbarazzante. Molti ne hanno parlato con disgusto. Acne di Zanzara va oltre l'indignazione e il piagnisteo ("indignazione" e "piagnisteo" sono gli autori del 99% dei blog italiani - tutto loro scrivono), e vi permette di toccare con mano l'oggetto misterioso. Capirete che il buon Spencer si limita a fare "woo-hoo" un paio di volte e - forse - a suonare la chitarra. Troppo poco per il linciaggio.

Il nostro sul palco conferma quanto ho anticipato: è sempre un gigione animato dal fuoco del rock'n'roll - non è più (ovviamente) una delle punte di diamante del rock mondiale, fa il verso a sè stesso. Continuerà finchè campa a raccogliere consensi entusiastici nelle più sperdute provincie dell'impero (tipo Italia) ma gli hotel cinque stelle ormai appartengono al passato. Gli Heavy Trash sono in tour con un catorcio di furgone e con una backing band che fa il doppio lavoro, The Sadies.

I Sadies, canadesi di Toronto, sono uno di quei gruppi che impazzano alle feste di capodanno nell'Alberta. Country-rock-surf-folk-psych suonato a memoria, tecnica prodigiosa infarcita di assoli velocissimi e anche una discreta personalità compositiva. Questi stakanovisti prima fanno il loro onesto concerto, professionale, divertente e impreziosito nel finale da un numero da circo mai visto prima: un chitarrista suona i tasti della chitarra dell'altro chitarrista, e viceversa, continuando contemporaneamente a pennare sulla propria - le due chitarre suonano melodie diverse. Bisogna vederlo per capire esattamente come funziona, ho cercato di filmarlo ma come al solito quando compare lo yeti si scaricano le pile - mannaggia. Poi suonano con i due Heavy Trash, e Jon Spencer dovrebbe dedicare ai Sadies le stesse attenzioni che ha dedicato al microfono, per ringraziarli di aver salvato la sua esibizione da un immediato oblio. Comunque il rock'n'roll tradizionale lo sa fare, eccome.

lunedì 28 gennaio 2008

17 minutes over Corsico


Sì, sì, il free jazz è tutto uguale e soprattutto è uguale a sè stesso da quarant'anni e passa. Proprio come la techno, la house, le partite di calcio, lo ska, il metal, il rap, il punk, i film porno, l'indie inglese, la politica, il reggae e potrei andare avanti. Bisogna soffermarsi sulle sfumature. La capacità della mente umana di dimenticare il già visto fa il resto. Sabir Mateen suona indifferentemente sax, clarinetto e flauto traverso (ma non è vero quanto ho scritto prima del concerto, non ha mai suonato con Sun Ra, bensì con un'altra Arkestra, colpa del solito comunicato stampa redatto da qualche incapace), la memoria degli esperti di jazz che conosco non sa citare alcuna contrabbassista donna (e questa ha suonato pure bene) e non capita spesso di poter vedere un concerto seduti a mezzo metro dai musicisti. Che non passeranno alla storia, ma senza dubbio sanno il fatto loro.

lunedì 21 gennaio 2008

Non ve l'avevo detto


Non è un caso se nel corso dell'ultimo anno sono andato a vedere William Parker ben quattro volte. Questa volta oltre al fido Hamid Drake alla batteria (praticamente la sua ombra, mancava solo al Bääfest perchè non hanno cacciato abbastanza soldi) si è portato ben sei negri, per reinterpretare le canzoni di quell'altro gran negro di Curtis Mayfield (sì, quello delle colonne sonore dei film blaxploitation, sì, quello di Superfly). Uno dei sei è un monumento della controcultura americana, Amiri Baraka aka LeRoi Jones, poeta, amico dei beatniks, esponente delle Black Panthers, vecchio, storto e malfermo ma dalla voce ancora autorevole. Inutile che vi dica che sul palco questi sono tutti dei mostri, guardatevi il video e giudicate da soli. Ovvio però che un concerto previsto per le 11 di domenica mattina attiri soprattutto un pubblico di vecchie e visoni (credo di essere stato il più giovane in sala). A seguire buffet: le vecchie e i visoni hanno messo in pratica quanto appreso durante il camp estivo degli All Blacks, gettandosi a corpo morto sui salatini. Una scena orrenda.

martedì 15 gennaio 2008

I concerti del weekend

Come succede quasi sempre quando un gruppo è sulla bocca di tutti, anche in un ambiente limitato come l'underground italiano, il gruppo dal vivo delude. Mosci, stanchi, scazzati, con tre/quattro canzoni buone (ad essere gentili), il Teatro Degli Orrori mi sembra proprio che abbia perso il treno. Non credo miglioreranno in futuro, visto che la band è formata da veterani che hanno già dato il meglio di sè. Forse è stanchezza da superlavoro, fatto sta che le canzoni non ci sono (e su di loro si addensano pericolosissime ombre emo). E nonostante questo riescono a distinguersi dalla massa, restando comunque nel novero dei migliori gruppi italiani (non è difficile). La gente non capisce e li acclama lo stesso, con smodato entusiasmo.

Quel che è successo sabato invece è stato come sfogliare alcune pagine dell'Enciclopedia Dell'Ignoranza. Per comparire nella prestigiosa pubblicazione un musicista deve avere almeno una di queste caratteristiche

• canottiera

• basette lunghe mezzo metro

• pelame dove normalmente non cresce (nel caso del batterista dei Peter Pan Speedrock: sulle spalle)

• ispirarsi ai Motörhead o agli Zeke (i Peter Pan Speedrock si ispirano a entrambi)

• suonare cose facili ma bene, non essere mai stanchi, eccedere nei bis

• suonare delle drinking songs

• al basso o alla chitarra deve mancare almeno una corda (perchè non la vogliono usare, non perchè si rompe durante il concerto)

I Peter Pan Speedrock hanno tutte queste caratteristiche. Qui un loro video con un pancione clamoroso sul palco, qui un loro cartone animato con un pulcino alcolizzato, qui il filmato di Mago Mao. Non si vede un cazzo, lo so, ma questo è quanto.

giovedì 27 dicembre 2007

Sopravvissuto


Dice più un video di mille parole. Nel gergo militaresco, "massiccio" è chi esegue con particolare prontezza, decisione e vigore le attività militari, come battere il passo o gridare "comandi" quando si riceve un ordine. Chi è "massiccio" è animato dalla "massiccità", appropriata sostantivazione italo-partenopea che nella testa dei caporali istruttori dell'esercito dovrebbe descrivere qualcosa di simile alla Forza di Guerre Stellari. I Lento sono animati da questo sacro fuoco fatto di dedizione e obbedienza ignorante: però invece di essere sottomessi a un sottufficiale ottuso, prendono ordini da una (ben più convincente) batteria di Marshall. E riversano sul "nemico" (cioè il pubblico) una potenza seconda (a mia memoria) solo a quella dei Sunn O))). Notare (a metà video) l'abnorme quantità di pedali che si portano sul palco: peace through superior firepower. Roba che fa vibrare le viscere e che sarebbe stata più adatta dopo le Feste Comandate, per smaltire i grassi polinsaturi ingurgitati durante i cenoni. I più noti internisti consigliano un concerto dei Lento ai pazienti affetti da calcoli renali, esperimenti clinici dimostrano che le basse frequenze sprigionate dalla loro musica sono molto più efficaci del litotritore nella cura di questa fastidiosa patologia. Polverizzano i sassi. I Juda in apertura se la cavano decentemente e se il bassista la smettesse di cantare potrebbero diventare anche loro dei brillanti esponenti della scena drone/doom nazionale. Per oggi vi saluto elencandovi il bottino che ho saccheggiato dalle cene natalizie

· una teglia di lasagne
· quattro tavolette di cioccolato di varie qualità
· praline al liquore
· due salami nostrani
· pere glassate al forno (volendo ci si può versare sopra del cioccolato fuso)
· un vaso di salsa tonnata e uno di salsa cocktail
· una pancetta di manzo ripiena
· una cofana di insalata russa

Tanto per digerire chiamo i Lento.

lunedì 17 dicembre 2007

Tripudio ovino

E' venerdì sera. Mentre l'orda barbarica appicca il fuoco al palazzo, l'imperatore non ha ancora deciso quale servizio da tè far portare in tavola per il ricevimento. Questa è l'atmosfera che si respirava qui, durante una miniconferenza in cui un selezionato gruppo di teste d'uovo della discografia e del giornalismo ha discettato sul succoso argomento "cosa succederà alla musica dopo internet". I pochi presenti sono stati messi al corrente delle seguenti verità:

"il tempo medio di permanenza sui canali di Mtv è inferiore a cinque minuti" (hanno contato solo quelli che non trovano più il telecomando);

"i dischi non si vendono più";

"i giornali musicali non si vendono più";

"cosa ci stiamo a fare qui?".

Poi il delegato di Radio Popolare, con la voce tremante dell'orfanello che scopre di essere stato venduto a un trafficante di organi, si domanda: "ma ci saranno mai dei giovani che raccoglieranno il testimone degli Afterhours, dei Subsonica?". Non potevo stare zitto. "SPERIAMO DI NO!" gli ho urlato, tra le risate di chi non aveva il boccale di birra alle labbra. Dopodichè sono andato a vedermi chi del futuro della musica se ne sbatte i coglioni, mandando sul palco Marby la pecora.

I Marble Sheep, due batterie, due chitarre, un basso (suonato da una bassista femmina e giapponese - che però non conta nell'ambito della "rispettabilità indie", perchè i Marble Sheep sono tutti giapponesi), spaccano ben al di là della limitata immaginazione occidentale. Come gli Hawkwind ma dieci volte più tirati e rumorosi. E molto, ma molto meno tamarri. Durante i bis si raggiunge il climax quando la bassista, incitata dallo slogan "vogliamo la pecora! Vogliamo la pecora!" (uno slogan lanciato senza vergogna dalla Signora Marta, la cui semplice, rarissima presenza a un concerto lo rende un evento irripetibile) compare saltellando e vestita da pecora in una trionfante deflagrazione di feedback. Trenta spettatori impazziti che ballano con una pecora. La cosa più simile alla gayna© che ho visto quest'anno. Menzione d'onore per il merchandising: uno dei più ampi assortimenti di magliette che abbia mai visto, decine di cd, vinili e split singles con gruppi ignoti, un set di plettri firmati dai membri del gruppo, un box con otto cd-r dal vivo al prezzo ridicolo di dieci euro: di sicuro questa gente ha fiducia nel futuro, riesce a vendere il proprio artigianato e non ha mai assistito a una miniconferenza da mani sui coglioni come quella di prima. E queste cose succedono sempre, ahimè, quando ho finito i soldi. Avanti così.