Un disco che tutti dovrebbero avere ma che qualcuno sicuramente non ha. Ecco cosa ne ho scritto qualche tempo fa su rateyourmusic.com:
Il disco che chiude la prima parte della carriera dei Pink Floyd. Volendo essere più categorico, potrei dire tranquillamente “il disco che chiude la carriera dei Pink Floyd”. Dopo, le loro composizioni hanno conosciuto sia uno straordinario incremento di popolarità quanto un uguale e contrario calo di creatività accompagnato da spocchia, inutili album concettuali e megaconcerti dai costi proibitivi per chiunque altro. Degli album successivi salvo solo Meddle, il sottovalutato Atom Heart Mother e la colonna sonora Obscured by Clouds. Mi attirerò le ire di tutti gli ex boy scout che credono che la scontata pomposità di The Dark Side of the Moon e The Wall abbia cambiato loro la vita, ma chi se ne frega, preferisco ascoltare un gruppo che ha inventato una psichedelia cattiva e inquietante (mai più eguagliata e malissimo imitata), che ha incrociato la traiettoria imprevedibile del genio malato di Syd Barrett, che ha ottenuto a tratti risultati paragonabili a quelli di Krzysztof Penderecki, Béla Bartók e György Ligeti, tra i maggiori compositori del Novecento. I Pink Floyd sono stati tra i primi a includere nel rock accezioni colte, estranee alla musica popolare (che comunque non rinnegano), con un approccio mai scontato, privo di presunzione, senza perdersi in superflui tecnicismi. Hanno inoltre apportato migliorie tecnologiche e scenografiche allo spettacolo del rock: le casse acustiche che compaiono nello splendido film-concerto Live at Pompeii (che oggi sembrano assolutamente normali) all’epoca erano considerate gigantesche, quasi eccessive. Ummagumma è diviso in due parti. La prima comprende esecuzioni dal vivo di tre cavalli di battaglia tratti dai primi due album (The Piper at the Gates of Dawn e A Saucerful of Secrets) e di un inedito (Careful With That Axe, Eugene), la seconda raccoglie brani composti singolarmente dai membri del gruppo, come a voler decretare lo status di autore di ogni Pink Floyd. Un atteggiamento che col tempo, purtroppo, sarà fagocitato dall’ego di Roger Waters e David Gilmour.
Astronomy Domine: l’attacco di chitarra è fuori dal tempo, l’atmosfera cosmica precorre il krautrock, la curiosa melodia vocale è diversa da tutto il rock precedente (qui c’è ancora l’apporto compositivo di Syd Barrett). Ci sono elementi del progressive rock che verrà, intermezzi pastorali di organo. I crescendo su cui vive questo brano risulterebbero moderni oggi (i Godspeed You! Black Emperor ci hanno costruito una carriera e non sono mai stati così incisivi).
Careful With That Axe, Eugene: il basso disegna un teatro di inquietante attesa, organo e voci descrivono un assolato tramonto. Quando il sole scompare dietro le colline, cedendo il passo alla penombra, esplode l’orrore. Eugene e la sua ascia scuriscono il cielo rosso di crepuscolo col rosso del sangue fresco, David Gilmour e la sua chitarra osservano compiaciuti. Dopo il raptus di violenza, torna la quiete e i piatti di Nick Mason sembrano rugiada che stilla sui fili d’erba, come se nulla fosse accaduto. Giustizia è fatta.
Set The Controls For The Heart Of The Sun: le percussioni dettano i tempi di un rito ancestrale che si svolge nel più folto del bosco, i toni sono dapprima stilizzati, quasi ieratici, ripetitivi, ipnotici. Poi si scatena il sabba. Lampi di luce lunare su una scena bestiale che mai si vorrebbe vedere. Una straordinaria atmosfera orrorifica con uno fra i titoli più belli di sempre.
A Saucerful Of Secrets: uno dei brani floydiani più sottovalutati. Che bello quel suono di tastiera. Qui si allontanano del tutto dal rock. Bordate noise degne di Krzysztof Penderecki o dei Sonic Youth. Classica contemporanea? Psichedelia free form? Molto evocativo il mantra percussivo centrale, su cui gli altri strumenti sono liberi di inventare. Come mai i Pink Floyd hanno lavorato così poco per il cinema? Il tema di organo che determina il finale, potentissimo e malinconico, è ideale per verificare la qualità dei vostri woofer. Occhio al volume, se non sono più che buoni potrebbe sfondarli. Se invece sono buoni, nascondete le cristallerie.
Sysyphus: Richard Wright, il più schivo e intellettuale dei Floyd, propone questo lungo brano in quattro movimenti, introdotto da un altisonante tema di organo (primo movimento) e sviluppato da un pianoforte dalle timbriche astratte e concitate, accompagnato solo da qualche tocco di batteria (il secondo movimento termina rombando nel riverbero, il terzo in una sfuriata di fiati quasi free jazz). Il lungo quarto movimento si apre con un’atmosfera di bucolica tranquillità con tanto di cinguettio di uccelli (il tema di tastiera mi suggerisce addirittura la natalizia Astro Del Ciel!), per poi improvvisamente piombare nel terrore. L’organo rumoreggia a nervi scoperti riproponendo nel finale la melodia di apertura. I fan di The Wall diranno che questa non è musica. Siamo, ovviamente, su tutt’altro livello.
Grantchester Meadows: Ancora una piacevole sensazione di immobilità campagnola, con cinguettii e ronzii d’api. Roger Waters canta e suona la chitarra comodamente stravaccato sotto una quercia. Il lato più folk e tradizionalista dei Floyd, tutto acustico, una canzone “normale”, un momento rilassante (e molto britannico) all’interno di un disco che disorienta tanto è avanguardista e ricercato.
Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together In A Cave And Grooving With A Pict: I versi degli animali sono protagonisti di una composizione disturbata, totalmente folle, probabilmente fatta con dei nastri mandati in loop. Bisognerà aspettare Aphex Twin (più o meno) per riascoltare qualcosa del genere. Emerge un sottofondo magico, ancestrale, legato in qualche modo ai poteri segreti della natura. Anche qui, i fan di The Wall diranno che non è musica.
The Narrow Way: David Gilmour nasce come chitarrista blues e si sente. Ancora belle atmosfere pastorali sottolineate da una chitarra acustica e punteggiate di effetti psichedelici (prima parte), poi si accendono i distorsori e parte un riff di chitarra inquietante, claustrofobico, quasi sabbathiano, che sfocia in un vortice di rumori (seconda parte), per concludere con 6 minuti che anticipano molto del lavoro futuro (The Dark Side of the Moon è già tutto qui): voci aeree, melodie decadenti e austere. Brano eccellente, ignorato dai più (d’altronde è nascosto in fondo a un doppio album). Non il migliore di Ummagumma, ma ci sta. E la terza parte potrebbe far ricredere molti sull’effettivo valore dei dischi successivi.
The Grand Vizier’s Garden Party: un piffero orientaleggiante introduce e conclude il pezzo composto dal batterista Nick Mason. Percussioni e drones proto-elettronici (curiosamente a bassa fedeltà), che al di là del titolo non mi evocano tanto la festa nel giardino di un Gran Visir, tra baiadere e broccati, quanto le diavolerie di un maldestro alchimista alle prese con alambicchi, pietre filosofali e omuncoli. Certa elettronica di ricerca ha fatto lo stesso circa venticinque anni dopo: ritmi privi di regolarità e improvvisazioni tastieristiche.
Una disamina fin troppo lunga per dire che Ummagumma ha lasciato un segno forte nell’ambito della musica del Novecento. In quanto a stupidità del titolo è stato superato qualche anno dopo solo dal "Gabba Gabba Hey" di Ramonesiana memoria: ma che importa.
PINK FLOYD
UMMAGUMMA
HARVEST SHDW 1/2 (1969)
VBR
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